(micro-racconto di Matteo F. Ponti)
Con un ultimo sforzo, quasi fosse il respiro finale, l’urlo del Ronin, riuscii a cavarmi fuori dallo stretto cunicolo, guadagnando la superficie. Indosso mi restava una piccola parte del perfetto equipaggiamento dello speleologo, in particolare, una maglia nera di pile a collo alto, un paio di pantaloni e gli scarponi. Un corpo sudato, ferito, spossato. Giacqui con la guancia appoggiata sull’erba dopo essermi lasciato rotolare per qualche metro a valle, passando gradualmente dalla tenebra alla luce. In effetti la notte mi parve approssimarsi rapidamente al di sopra di quella umida foschia piovigginosa la quale a sua volta sovrastava quello straccio d’uomo. Ora che la calma scese mi accorsi del dolore. Carne tagliata, ossa rotte, muscoli tumefatti. Chiusi gli occhi, respirando affannosamente, pensai “diranno”:
“non tornerai più là sotto vero ?“, dice la madre.
”gruppo di speleologi spericolati perdono la vita in 4 e se ne salva solo uno”, dice il giornalista.
“è uno sport rischioso e bisogna accettare le conseguenze spiacevoli”, dice chi legge il giornale.
“raccontaci di quando hai capito di essere salvo”, dice il conduttore di talk show.
“e finalmente uscimmo a riveder le stelle”, dice l’amico che avresti voluto salvo con te.
Sono scampato all’eterno e mi incamminerò per raggiungerlo. I miei compagni sono già in paradiso a chiedersi se abbiano mai provato dolore e non ricordano più alcunché.