Il mito della caverna mi affascina. Il mito raccontato da Platone nel libro VII de “La Repubblica” per spiegare l’ignoranza e la conoscenza umana. Il mito descrive un gruppo di prigionieri incatenati in una caverna che solo possono vedere le ombre delle cose proiettate sulla parete davanti a loro. Queste ombre sono l’unica realtà che conoscono. Uno dei prigionieri viene liberato e, per la prima volta, vede la luce del sole e scopre la vera natura delle cose.
La vera natura delle cose è quello che si potrebbe chiamare incanto. L’etimo ci porta alla luce il significato più profondo. Il canto, che sta nel lemma, oltre l’IN che dà ragione di una intensità significativa, altro non è che una sorta di formula magica, che evoca, che tira fuori dal visibile, il messaggio invisibile sotteso. Ogni accadimento ci trasmette, oltre la sua manifestazione plateale, un significato, un senso nuovo da aggiungere alla vita.
Restando prigionieri nel buio dove solo immagini appaiono, non troveremo mai l’incanto della luce del sole. Alla sua luce la vita ci si farà presente, con le sue vicende gratificanti e frustranti, in ogni caso più tangibili, delle mere ombre della caverna.
E allora, viviamo l’incanto, oltre le tremolanti ombre di un cono di luce, immerso nella tenebra.